Il regolamento tassonomia: richieste troppo gravose o opportunita’ di miglioramento per le imprese?
È parere ampiamente diffuso che la sostenibilità come futuro modello di sviluppo economico e base per un nuovo modo di fare impresa sia un percorso ormai tracciato. È altrettanto innegabile che la trasformazione del sistema – dall’economia circolare per ridurre gli sprechi e recuperare gli scarti alle fonti energetiche rinnovabili – richieda sforzi ed investimenti ingenti, sia per le istituzioni che da parte delle imprese, quest’ultime chiamate addirittura a ripensare il proprio modello di business. Ad accelerare il processo ci ha pensato l’Unione europea che, attraverso l’adesione volontaria dei partecipanti ai mercati finanziari (banche, fondi d’investimento), si propone di orientare i capitali privati verso attività economiche definite sostenibili, in modo da agevolare il raggiungimento degli “ambiziosi” obiettivi climatici della strategia “Green Deal”: ridurre le emissioni di gas serra del 55% entro il 2030 e raggiungere la neutralità climatica da parte dell’UE entro il 2050.
La parola d’ordine è trasparenza, per cui imprese e operatori finanziari saranno obbligati alla disclosure, la pubblicazione di dati sulla sostenibilità secondo la tassonomia delle attività economiche eco-compatibili, per consentire agli investitori di disporre di informazioni chiare e comparabili. Ma cosa prevede il Regolamento europeo UE 2020/852 (o Regolamento Tassonomia) e a quali impegni saranno chiamate le imprese? La Tassonomia nasce all’interno del Piano d’Azione sulla Finanza Sostenibile, con l’obiettivo di creare un linguaggio comune e un sistema di classificazione delle attività che possono essere considerate sostenibili in base all’allineamento ai sei obiettivi ambientali dell’Unione Europea (mitigazione e adattamento al cambiamento climatico; uso sostenibile e protezione delle risorse idriche e marine; transizione verso l’economia circolare, con riferimento anche a riduzione e riciclo dei rifiuti; prevenzione e controllo dell’inquinamento; protezione della biodiversità e della salute degli ecosistemi) e al rispetto di garanzie minime sia sociali che di governance.
Una serie di atti delegati, elaborati con la consulenza della Platform on Sustainable Finance, dettagliano i criteri tecnici che permettono di stabilire a quali condizioni ciascuna attività economica fornisce un contributo sostanziale ad almeno uno dei sei obiettivi ambientali senza arrecare danni significativi a nessuno degli altri cinque, secondo la clausola “Do No Significant Harm” (DNSH). Dal momento che le società finanziarie e non finanziarie sono tenute a fornire agli investitori le informazioni sulle prestazioni ambientali delle loro attività economiche, il regolamento può considerarsi integrato al quadro normativo esistente in materia di rendicontazione non finanziaria, in particolare:
- al Regolamento 2019/2088 sulla trasparenza delle informazioni sulla finanza sostenibile (Sustainable Finance Disclosure Regulation – SFDR) che impone agli operatori e ai consulenti finanziari specifici requisiti di disclosure per i prodotti che promuovono caratteristiche ambientali o sociali (art. 8 SFDR) e per i prodotti che hanno come obiettivo investimenti sostenibili (art. 9 SFDR) e anche di fornire informazioni sulla percentuale di allineamento degli investimenti alla tassonomia;
- alla direttiva 2014/95/EU sulla rendicontazione non finanziaria (Non-Financial Reporting Directive – NFRD) valida per le imprese di grandi dimensioni/enti di interesse pubblico e alla nuova direttiva 2022/2464 sull’informativa societaria di sostenibilità (Corporate Sustainability Reporting Directive – CSRD) che include anche le aziende con più di 250 dipendenti e tutte le PMI quotate sui mercati europei (a eccezione delle microimprese).
Secondo l’art. 8 del Regolamento Tassonomia, tutte le organizzazioni in obbligo saranno tenute a divulgare informazioni in merito all’allineamento alla tassonomia utilizzando alcuni indicatori di performance (KPI):
- il fatturato (Turnover) proveniente dalle attività produttive già allineate alla tassonomia;
- gli investimenti in conto capitale (Capex) indicati nei piani strategici aziendali;
- le spese operative (Opex) indicanti come vengono perseguiti gli obiettivi intermedi del piano strategico di transizione ecologica.
Per le imprese si tratta innegabilmente di una mole di lavoro considerevole sotto tutti i punti di vista: di tempo, di organizzazione, di investimenti tecnologici e finanziari. Le piccole-medie imprese non quotate, che per il momento non ricadono negli obblighi della succitata normativa, risentono comunque delle pressioni del mercato che, come un effetto domino, si ripercuotono sull’intera catena del valore (clienti, fornitori, istituzioni bancarie). Gli sforzi richiesti possono risultare doppi per loro che, per essere in grado di mettere a sistema queste trasformazioni, hanno bisogno di tempo e di gradualità, oltre che di supporto finanziario, considerando anche la congiuntura non proprio favorevole che stiamo attraversando (dall’impennata dei costi energetici alla scarsità e rincaro di svariate materie prime “critiche”) con il rischio che la gestione del quotidiano prevalga e provochi una battuta d’arresto del processo di cambiamento. Affinchè questo non avvenga, è prioritario che le istituzioni sostengano politiche industriali che offrano incentivi alle imprese coinvolte nella transizione ecologica, in modo che possano rendersi progressivamente autonome dal punto di vista del fabbisogno energetico e staccarsi dal fossile, avviare filiere della circolarità con recupero degli scarti di produzione e trasformazione degli stessi in materie prime seconde, ridurre gli impatti su territori e biodiversità. Le banche stesse potrebbero accompagnare le PMI per finanziare la riconversione industriale.
Per le imprese questi investimenti “obbligati” possono tradursi in vantaggi competitivi, rendendo i processi produttivi più moderni e digitalizzati e creando un ambiente di lavoro più sicuro e collaborativo. Ma altrettanto importanti sono i benefici ambientali e sociali che l’impresa può generare nel mondo con le sue pratiche sostenibili, migliorando il benessere e la qualità della vita e rafforzando i legami con le comunità e i territori.